I racconti dalla Locanda alla Fine dei Mondi

Liberi (un omaggio a Lovecraft)

Perchè diavolo faceva così freddo in una notte d'estate non l'ho mai capito. Il 15 agosto probabilmente più freddo di cui si sia mai parlato. Ero arrivato a Knoxville poche ore prima, ma mi ero perso e non riuscivo a trovare la strada che mi aveva indicato mio fratello per raggiungere la casa dei miei genitori. Non che volessi davvero arrivarci. Quegli idioti superstiziosi mi avevano abbandonato, perchè ero il loro sesto figlio. Poi, tutto ad un tratto, quando ero riuscito a costruirmi una vita tranquilla, una famiglia ed una piccola impresa assicurativa, mi arriva la telefonata di questo tipo con la voce da pazzo che dice di essere mio fratello, e la storia della mia infanzia mi piomba addosso come un masso di qualche tonnellata. Avrei dovuto assicurarmi contro le "Lunghe Storie" pensai, tormentandomi con la mia solita ironia disfattista. Quando appresi che i miei genitori erano entrambi morti da poco in circostanze misteriose, però, ai miei occhi la situazione cambiò improvvisamente. Non volevo certo bene ai due bastardi che mi avevano buttato in mezzo a una strada perchè, in ordine di nascita, corrispondevo al numero telefonico del Signore del Male, ma l'idea di un'eredità cospicua (magari dettata dai sensi di colpa) mi allettava da morire. Non ebbi neppure la delicatezza di chiedere a che punto fossero le indagini, feci domande solo ed esclusivamente riguardanti la situazione economica della mia "famiglia". Il pazzo dall'altra parte della cornetta non fece una piega, e, quando appresi che eravamo di discendenza nobile, mi precipitai a fare le valigie.

Forse le indicazioni erano sbagliate. Alla fine, me le aveva passate un pazzo. Questa specie di parco non accennava a finire, il vento soffiava facendo scuotere gli alberi e oltrepassando l'armatura del mio cappotto. "Ora ci manca qualche strega, un vampiro ed un lupo mannaro, poi siamo a posto". La solita ironia disfattista. Passeggiavo da ore, per niente spaventato, sicuro, nel mio scetticismo da imprenditore certo che l'unica cosa che da la salvezza, o la morte, sono i soldi. Ed ecco finalmente, davanti ai miei occhi, spuntare qualcosa di vivo e senza radici. No, non era la panchina posta al centro di una radura dall'aspetto surreale (gli alberi sembravano infatti aprirsi al suo cospetto in modo stranamente regolare). Erano le due persone che stavano sedute sopra di essa. A dire il vero, erano così strette e attaccate che all'inizio pensavo fosse una sola, enorme.
"Chiedo scusa!" dissi ad alta voce, nonappena i miei occhi cominciarono a delineare le due figure umane. Ma non ebbi risposta.
"Ehi!?" esclamai allora a voce più alta. Nessun segno di vita.
Quando fui abbastanza vicino da accorgermi di alcuni particolari bizzarri, esitai per un momento. I due personaggi avevano capelli lunghi, lunghissimi, come non ne avevo mai visti. Erano evidentemente unti ed emanavano un odore che non era propriamente sgradevole, ma selvaggio, di sicuro non umano. E tuttavia, nonostante queste caratteristiche poco piacevoli, avevano ai miei occhi un fascino straordinario, quasi soprannaturale. Provavo per quei due sconosciuti che non avevo ancora visto in faccia una sorta di rispetto reverenziale, un timore non dettato dal pericolo imminente, ma dalla mia inferiorità circostanziale. Quando riuscii a raccogliere abbastanza coraggio, sfiorai la spalla di uno dei due, sussurrando: "Chiedo scusa..".
Un verso non umano, una specie di ringhio sommesso ma minaccioso salì dalle labbra della figura che non avevo toccato e che cominciava a stringere tra le sue braccia il compagno, come a difenderlo dal pericolo da me rappresentato. Interdetto e paralizzato, immerso nel ragionamento, non tolsi subito le dita dalle spalle della bizzarra creatura che non ebbi più il coraggio di definire umana. Alla mia indecisione, però, il ringhio inumano cominciò a salire e a diventare sempre più minaccioso, e quando la testa della creatura si voltò a guardarmi, dietro la matassa di capelli riuscii ad intravedere un'espressione solo vagamente umana, le labbra contratte minacciosamente, i denti digrignanti, gli occhi estremamente seri. Mi risvegliai subito dal torpore del dubbio, e staccai la mano dalla spalla dell'altro animale. Questo si volse per un attimo, ed io ebbi l'opportunità di cogliere i lineamenti, spaventati, di una ragazza. La femmina, guaendo, si rintanò sempre di più tra le braccia del suo compagno, che adesso mi guardava con aria soddisfatta, con un ghigno allegro e giocoso, quasi di sfida. Non ero curioso, nè spaventato, ma non riuscivo a staccare gli occhi da quell'immagine così tenera e terribile insieme, preso alla sprovvista da un contrasto così evidente. Istintivamente, misi una mano nella tasca del cappotto. La bestia mi guardava con attenzione, pronta a balzarmi adosso al primo passo falso, ma senza perdere quel sorriso ebete e misterioso dal volto. Le mie mani sfiorarono qualcosa dalla consistenza plastica, ma soffice al tatto. Era il panino che avevo dimenticato di mangiare durante il viaggio, essendomi abbandonato al sonno e ai conseguenti sogni di ricchezza. L'idea mi balenò tra le tempie come un fulmine. Forse fu dettata dalla paura, forse da un residuo di curiosità umana che cercava di farsi spazio attraverso il mio materialismo razionalista. Strappai cautamente la pellicola che avvolgeva il mio pranzo, di cui presi una piccola porzione, il tutto all'interno della tasca, senza tradire alcun movimento all'esterno. L'animale non smise di fissarmi, anzi sembrò individuare le mie macchinazioni e, una volta che ebbi staccato il pezzetto di cibo, comincio a muovere le narici e ad inspirare nervosamente. Stava annusando. Le mie teorie non erano del tutto infondate. Liberai con estrema lentezza la mano dalla sua prigione di tessuto sintetico, mentre la creatura esaminava ogni mia azione con curiosità sospettosa. Alla fine, estrassi l'involto di pane e carne e lo appoggiai per terra, allontanandomi subito dopo. Il mostro si avvicinò lentamente, trascinando la sua compagna per la mano. Annusò il piccolo regalo che gli avevo lasciato sul pavimento di foglie e terriccio, poi ne ingurgitò una parte, lasciando il resto per la femmina, che fece altrettanto. Subito guardò il mio volto. Io comincia a sorridere, convinto di essermi ingraziato quella mente selvaggia ma semplice. Effettivamente, la sua espressione non era più ostile, piuttosto implorante. Cominciò ad avvicinarsi a me, ed io di getto provai ad allontanarmi, ma la velocità della figura che si muoveva acquattata, aiutandosi con le braccia, era sovrumana come il resto delle sue caratteristiche. E i suoi movimenti erano talmente ferini che, senza che io l'avessi deciso consciamente, la mia mente classificò i suoi arti come "zampe". Quando mi accorsi che scappare sarebbe stato inutile, se non addirittura rischioso, decisi di abbandonarmi al mio destino. Il cucciolo non annusò. Le sue capacità intelletive, seppur limitate, riuscivano a collegare le informazioni ottenute alla realtà circostante. Prese a rovistare nella mia tasca, da cui estrasse il resto del panino. Divise anche quello con la femmina, poi cercò nell'altra tasca. "Mi dispiace.. Ho solo questo." sorrisi. Quel che avvenne dopo mi paralizzò. Dapprima lasciai che annusasse le mie mani e, con un certo ribrezzo, sopportai la lingua bavosa che si insinuava tra le mie dita. Il ringhio salì impercettibilmente, dapprima basso e sommesso, poi deciso e terribile. Il sorriso mi sparì dal volto, per lasciare spazio ad una maschera di terrore, quando il verso si trasformò in un ululato cupo e profondo, che risuonò tra i rami al di sopra del vento. Dopo qualche istante, ebbe risposta. Il lupo mi fissava, non più implorante, ma affamato, di una fame atavica e selvaggia, dimenticata dalla civiltà. I suoi occhi risuonavano di ululati di caccia, ossa spezzate e carne tranciata e la fame, più antica della ragione umana, dettata dall'istinto di sopravvivenza, impressa dagli Dei antichi e dimenticati, pura e limpida, contagiò la femmina che aveva cominciato a fissarmi allo stesso modo e a ringhiare. Tentai di scappare, di tornare da dove ero venuto. Non ne ebbi modo. Alle mie spalle c'era un altro lupo. E un altro si avvicinava da sinistra. E un altro ancora da destra. E in un istante la radura fu piena di uomini-lupo, che ringhiarono all'unisono, digrignando i denti nella mia direzione. Il suono di tamburi di caccia salì lentamente dalle loro membra. Tamburi naturali, i cuori di bestie affamate e guidate dal selvaggio istinto. Tutti insieme, come un solo corpo, balzarono nella mia direzione e mi furono addosso. Divisero equamente la mia carne in un tripudio di sangue e membra, ed io non feci altro che guardare, troppo esterrefatto per poter muovere un solo dito. Dimenticai l'eredità, il denaro e tutto quanto c'era d'importante nella mia vita, e mi lasciai trascinare dalla furia animalesca e irresistibile che mi circondava, estasiato e terrorizzato al contempo. Banchettarono del mio corpo, mentre io, ancora vivo, osservavo il tremendo spettacolo della morte pura e semplice, non dettata dalla malvagità o dal desiderio, ma dall'istinto di sopravvivenza.

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I dati del racconto

  • Racconto

    del 07-03-2009

  • Autore del racconto

    Tentauren

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