I racconti dalla Locanda alla Fine dei Mondi

Verbivendolo

Trafelato e madido di pioggia, un uomo curvo e occhialuto aprì guardingo la porta, la campanella sullo stipite l’annunciò e quello quasi spaventato dall’improvviso tintinnio indietreggiò ma vinto da un’improvvisa oclofobia avanzò ancora e lentamente superò la soglia, gettò sospettoso lo sguardo sulla polvere del bancone e, tenendo ancora la porta, pronto a rapida fuga, balbettò un buonasera sbagliando: le lancette scandivano i minuti della decima ora del giorno.
Il cielo è vero mentiva facendosi scuro già dall’alba, ma il tempo degli uomini si divide in ventiquattro parti metà delle quali richiedono il buongiorno e l’altra metà il buonasera. Chi si attarda assai nei pensieri incoscienti delle ore, invero può incorrere nell’errore.
Un fruscio rivelò una presenza nel retrobottega. L’avventore lasciò andare la porta che richiudendosi richiamò all’azione la campanella. L’uomo scosse la testa fradicia come un cane inzuppato, incapace di tranquillizzarsi, al nuovo scampanellio temette l’arrivo di altri clienti.
Per quanto ciascuno degli eventuali clienti lo coglierebbe l’imbarazzo nel trovarsi in quella bottega. Quel che tutti cercavano li rendeva complici del medesimo destino. Pur tuttavia mai accadeva che si incontrasse qualcuno in quel negozio. Ciascuno degli avventori illudeva i colleghi di non necessitarne.
Il vetusto commerciante s’affacciò al di qua del bancone uscendo stancamente dal retrobottega. Con sorriso parentale si presentò allungando la mano. L’altro rimase ritto immobile non rispose alla cortesia per paura, non per ineducazione. Il commerciante si mostrò comprensivo e lo invitò ad esporre il suo problema.
L’uomo estrasse una busta sgualcita di carta gialla. Con lo sguardo basso di chi si accinge suo malgrado al peccato ne recuperò due, tre, quattro, innumeri fogli come foulard dal cilindro di un mago.si sparsero pagine sul pavimento ove parassiti mai spazzati rischiarono di disintegrare all’istante migliaia di parole. La busta fu poggiate sul banco e l’uomo già curvo di suo si acchiocciolò per raccogliere il frutto dei suoi pensieri. I parassiti gli procurarono un prurito che lo costrinse a molteplici strigliate per quasi due settimane. Alcun foglio andò infine perso, anche se molti si offrirono alla vista con l’aspetto logoro di documenti antichi dissepolti appena.
Con un singolare piumino dai colori sgargianti di uccelli del paradiso il bottegai ricacciò gli acari sul pavimento. Spazzò i fogli e invitò il cliente a riordinarli. Impiegò molti minuti l’uomo tra uno starnuto e un altro a rimettere ordine e parecchie difficoltà provocò la scomparsa del numero di pagina da molti fogli. Trattenne un sorriso il mercante che immaginava le bestioline della polvere che si stuzzicavano dalle bocche gambi di sette o pance di sei.
“Ecco è tutto qui. Sottolineati in rosso i… insomma su quelli deve lavorare… dovrebbe, in cambio del dovuto compenso… s’intende”.
“S’intende” – rispose il commerciante.
Si rivolse al retrobottega e si ritirò nel segreto del suo laboratorio. Più della paura poté la curiosità e il cliente si sporse sul banco per scorgere anche soltanto un barlume di quella stanza che a lui e a molti suoi colleghi costava tante umiliazioni e infinite risorse.
Scorse soltanto qualche scalino e il dorso di un mobile, un armadio o una libreria. Si accorse allora che il bancone divideva come barriera invalicabile il negozio dal retro e così come i clienti non potevano violare lo spazio riservato al lavoro, altrettanto il mercante non poteva oltrepassare quel confine per raggiungere l’angusta sala ove relegava il pubblico. Pertanto si accumulava la polvere e tanto s’affamavano tarli e acari, perché pur proliferando nel pattume gli si impediva l’accesso a più nobili pasti. Gli infiniti corridoi tappezzati di scaffali, gravidi a loro volta di pubblicazioni d’ogni tempo e d’ogni luogo, restavano oltre la soglia del laboratorio sotto l’attenta custodia del bottegaio e del suo piumino paradisiaco.
Attese il cliente, tese l’udito verso il fruscio delle pagine, lo scalpitare delle lettere tutte pronte ad acquisire dignità in neologismi originalissimi. Ascoltò l’azionarsi di meccanismi che ricordavano una fucina, il duro mestiere dei fabbri o dei falegnami. Il ticchettare preciso di mille orologi. Se i rumori dovevano rivelare l’atto creativo del mercante, si poteva concludere che stesse costruendo una pendola o un complicato balocco meccanico. Il commerciante artigiano uscì quando s’approssimava già il minuto in cui il buongiorno diventa buonasera. Sorrise e consegnò al cliente la sua busta gialla e un altro incartamento in una busta di cartoncino martellato, finemente sigillata da un araldo di ceralacca rossa.
Porse all’uomo un pezzetto insulso sul quale mani da monaco medioevale avevano arabescato una cifra alta assai, ma scritta in tal modo elegante da sembrare addirittura modesta.
“Non si sprecano parole e fiato per la viltà del denaro” – spiegò il bottegaio, peraltro inutilmente, essendo celebre quel suo vezzo aristocratico.
L’uomo pagò e, con lo sguardo basso, si diresse verso l’uscita ormai pronto al tintinnio e attento all’ora, trascorsa orami la prima metà del giorno sfoggiò un sicuro e compiaciuto “buonasera”.
Il bottegaio esibì ancora il proprio paterno sorriso e seguì con lo sguardo il cliente che tornava a bagnarsi di pioggia e di folla.
Puntuale allo scoccare del terzo minuto successivo all’uscita del primo cliente s’addentrò sicuro di sé il successivo.
Non si spiegava altrimenti tale precisa scansione del tempo che nella perfezione del numero tre. Volendosi a tutti i costi evitare tra loro i suoi clienti attendevano nell’ombra come banditi imboscati che il loro predecessore uscisse svuotato di denari e timori. Chi entrava per secondo o dopo ancora mostrava maggior spavalderia soprattutto se aveva riconosciuto il collega uscente. Così attesi tre minuti, tempo ritenuto sufficiente ad allontanarsi definitivamente dal vicolo, entrava il nuovo scrittore in crisi.
Il sorriso del bottegaio, dal canto suo non mutava, neanche quanto lo sdegno di un visitatore troppo assiduo rischiava di incurvarlo in una posizione di sdegno.
Quella volta però la persona entrante, non mostrava la spavalderia di un cliente troppo avvezzo alla singolarità del luogo, né la rilassatezza di chi ha riconosciuto un collega.
Entrò con l’allegra spensieratezza di un garzone, un uomo elegante in abito scuro cappotto color cammello e coppola e ombrello quadrettati in parure. Un corretto buonasera accompagnò un movimento educato dell’ombrello fuori dalla porta, che scosso con lentezza ed educazione, parve asciugarsi d’ogni più minuscola goccia. Calpestò lo zerbino, solitamente ignorato, mimetizzato col pavimento da uno spesso strato di polvere, appena percettibile per la differenza di spessore. Procedette con passi lunghi fino al bancone.
Il bottegaio non si era sbagliato, si trattava di un garzone. Non certo il ragazzo del macellaio, o la fanciulla del negozio di fiori, ma comunque un latore di messaggi altrui.
Snocciolò la sua questione studiate parole, il che rivelò la sua provenienza. Tanto bastava a perturbare l’aspetto gioviale dell’anziano commerciante.
“Mi permetta di presentarmi. Dottor Bianchi, ecco legga pure il mio biglietto. Mi si incarica di assegnarle un compito, per il quale si pagherà cinquanta volte più del suo normale compenso. Le si chiede la più scrupolosa riservatezza e la sua più attenta concentrazione. Anche se dovesse richiedere tale incombenza più d’un giorno io attenderò che abbia finito. Prego ecco il manoscritto, spero sia superfluo aggiungere che le è fatto assoluto divieto di copiarlo o conservarne anche piccolissime parti”.
“La sua richiesta mi pare ben posta e del tutto pleonastica, lavorerò il tempo necessario e mi farò pagare secondo la mia tariffa, poiché misuro solo il valore delle parole e non l’importanza degli uomini o dei loro discorsi, se vuole attendere, attenda, non mi preoccupo mai della comodità dei clienti quanto dell’efficacia del mio lavoro. Mi ritiro”.
Mentre scendeva la breve scalinata per la quale si accedeva al laboratorio il commerciante si maledisse per quella pubblica espressione di livore. Prima però di sedersi al suo banco di lavoro scacciò ogni sentimento perché il lavoro va svolto sempre col massimo dell’impegno, soprattutto al cospetto di cotanto committente.
Aprì col suo antico tagliacarte la busta recante l’odiato stemma del Parolaio. Ne trasse un foglio scritto in entrambe le facciate. La sua esperienza gli aveva fatto sospettare un discorso, un’orazione, una pubblica accusa, perciò si colorì di ridanciano stupore il viso dell’artigiano.
Una missiva, ma non delle solite, stentoree ufficiali, di quelle con le quali si vuol impressionare o spaventare o irretire qualcuno. Una epistola da nostalgia adolescenziale. Niente di più di una lettera d’amore.
Soffocò una risata, ché il pinguino in attesa non lo sentisse. Come il suo mestiere richiedeva la lesse. Un battito di ciglia, metà di un respiro gli bastò, a lui che negli anni aveva dovuto imparare a leggere trattati di apologetica, enciclopedie teologiche od anche oceanici romanzi in pochi secondi.
Quella lettera però rappresentò una prova solenne, il bottegaio non superò, la lesse e la rilesse e si rigirò dalle risa pur nella sua immobilità. Le spalle si scotevano per singhiozzi mascheranti risate. La bocca stoicamente ripiegava gli angoli che autonomi tendevano a sollevarsi. Lacrime divertite sprizzarono dagli occhi. Bagnarono il foglio e s’asciugarono in fretta.
E nell’apogeo del divertimento, mentre scemavano le difese lungamente provate della compostezza, un pensiero strisciò poi, acquattato raggiunse il centro dei desideri, scoprì un rancore in letargo da decenni e congiuntosi mostruosamente concepì la vendetta.
Gli occhi richiamarono le lacrime, la bocca si serrò come un plotone in assetto di guerra, le spalle assunsero anch’esse un rigore marziale ed il respiro ritmò tutta l’anatomia del bottegaio col cipiglio battagliero di un tamburo zulù.
Il lavoro, per la prima volta dopo decine di lustri, s’animò di sentimenti ora ostili, verso il suo rivale, ora d’orgoglio, gli occhi iniettati di sangue e il sorriso beffardo chiese l’ausilio dei fedeli suoi compagni. Migliaia di volumi serrarono i ranghi, un indice enciclopedico passò in rassegna le schiere e il bottegaio con immaginarie stelle generalesche appuntate all’anima cominciò l’arringa esacerbante, il discorso che i comandanti usano per convincere i soldati a gettarsi impavidi nelle braccia di Morte.
“Miei prodi alleati, sublimi compagni, onorati veterani ed impazienti nuove edizioni! Finora le nostre azioni valsero tesori, gratitudini stentate ed invidie non volute, ma oggi ad una missione io vi chiamo. L’uomo che mi chiedo ausilio, pregusta già il sapore effimero dell’irrisione, gongola nel pensiero di noi periti sotto il peso dell’umiliante sua richiesta. Ma debole è troppo spesso il cuore degli uomini, ed egli, credendo di umiliarmi m’offre invece il piatto succulento della vendetta. Per quanto ghiotta appaia l’occasione di una vita, non lasceremo che il nostro lavoro subisca il destino degli stolti, che sottovalutano le forze avversarie, e vantano i propri trionfi. Ogni vittoria costa sacrifici, a costo di consumare il nostro sapere, inventeremo la migliore parola che uomo abbai scritto. Miei fedelissimi amici, non il vile denaro, né la solitaria soddisfazione, no, oggi lavoreremo per la vittoria finale!”
Sorvolarono i suoi occhi gli scaffali scalpitanti, le macchine da stampa tese come catapulte alla vigilia di un assedio. Si schiarì la voce troppo a lungo relegato nel fondo della gola e continuò.
“Il parolaio, mi rivale di sempre, che da incalcolabili anni gode dei fasti della vittoria, mi chiede aiuto. Mi relegò, dopo una contesa epica, ai margini della creatività. S’appropriò dello scettro di signore di tutti i fonemi, imperatore degli alfabeti, principe delle proposizioni, nume delle grammatiche e creatore di neologismi. I poeti di ogni tempo da allora in poi lo esaltarono sfoggiando fieri i regali del Parolaio. Ed egli ha prosperato nella ricchezza, nell’onore, nella sua forza creatrice.
Ed io che condivisi con lui gli studi e le arti, che gli insegnai i segreti oscuri di tutte le consecutio, per un solo misero sostantivo sprofondai nella polvere e nella vergogna. Quaggiù nel vicolo malfamato degli imbonitori e dei falsi, la mia bottega invasa dai parassiti s’apre tra la provenzale che profuma di spezie magiche lettere incantate e il pellerossa che commercia in incubi.
Mia lettera scarlatta, infine, la mia insegna, una parola che da sola emana tutta la mia vergognosa fine. Verbivendolo, nella strada dei bazar a confondersi con le baracche di ortofrutta, fra i fetidi effluvi delle spezie e i veleni dell’invidia e del rancore. Ancora si rivolgono a me quei falsi creativi che comprano a caro prezzo le frasi altrui, inventate dal Parolaio per poeti più sommi. E quando le frasi ammuffiscono, le parole vanno a male per la cattiva conservazione, per l’uso spropositato, anche le frasi dell’odiato rivale di seconda terza e quarta mano, necessitano di revisione, di nuove azioni. Allora ammantati di spettrale timidezza, con sguardi bassi e labbra tremanti, le tasche piene e generose si rivolgono, qua da colui che spaccia con estremo riserbo, il sollazzo dei critici, la gioia dei poeti: sinonimi e contrari, neologismi, latinismi, francesismi e quant’altro in forma di verbo. Così ho scelto di specializzarmi nel cuore stesso della frase. Un solo predicato verbale che valga un premio nobel. Ne avrei vinti quattro dacché cominciai. Ma non la gloria io cerco, quanto la dignità perfetta della parola. Quella che il tronfio avversario non trovò mai, attento solo alla moda distante dagli insegnamenti e votato all’intuizione artistica. Oggi alla sommità del successo il suo vecchio cuore trova una scintilla che l’infiamma. Una donna, una ragazzina, eccita a tal punto i suoi sensi da indurlo a manifestare tutta la sua potenza creativa. Oh che lettera meravigliosa, donne di ogni luogo e tempo facilmente cadrebbero ai suoi piedi, ma la sua tracotanza osa sfidare i limiti del tempo e dello spazio. Non si accontenterà dell’amore vorrà la devozione, l’invidia di tutti, e vanterà la palma di miglior parolaio, dicendo che una sola lettera bastò ad innamorare la più leggiadra e desiderabile tra le donne. Gli manca però un verbo, ché il semplice ti amo anche se scritto in tutte le lingue del mondo non sazierebbe il suo ego. Egli vuole esprimere tutto l’amore del mondo il più intenso sentimento che mai uomo provò per Eva. Vuole da noi una dichiarazione che scavalchi i secoli che resusciti tutti gli amori sepolti, che anticipi quelli a venire, che viaggi negli spazi siderali e si addica all’amore angelico per il Creatore. !”
L’orazione lasciò il vecchio senza fiato. I tomi attesero. L’uomo presso il bancone si contorceva in eleganti smorfie ad evitare di grattarsi e starnutire, i parassiti sciamavano dentro i suoi vestiti, sotto la sua pelle, ma quello restava saldo sulle gambe e soltanto il rigirarsi innaturale degli occhi e l’arricciarsi composto del naso tradivano disagio.
Quando il verbivendolo si riprese dalla focosità dei suoi intenti, spiegò ai suoi strumenti ed ai libri quel che voleva da loro.
Anche l’uomo con l’ombrello fermo in balia degli acari ascoltò curioso il lavorio del laboratorio, così come il precedente cliente. Attendeva e, nonostante la sua scarsa inclinazione alla fantasia per qualche istante i pensieri divagarono verso i sentieri dell’immaginazione per spiegare la provenienza dei rumori, la natura del lavoro del verbivendolo.
Attese, e l’attesa s’allungò assai più del previsto. Scese la sera e poi la luna brillò scacciando la pioggia, corse la volta celeste e si rifugiò nel suo rifugio diurno. Una pallida laba fredda e piovosa annunciò l’arrivo del sole che si presentò scortato da nubi nere e preceduto dalla banda tonante di una tempesta. Si consumarono i minuti e le ore, l’orologio girò e girò ed ogni secondo parve un secolo e i minuti non si riuscirono più a contare. Il sole e la luna s’inseguirono ancora, e ancora. L’uomo non resistette più e si sfiorò una guancia irruvidita dalle mancate rasature. Il gesto lo liberò di una minuscola parte del fastidio arrecato dagli acari. Le sue scarpe lucide molto tempo prima si confusero col pavimento. Una dozzina di scrittori, poeti e saggisti s’arrischiarono dietro la vetrina sporca domandandosi se quell’uomo attendeva ancora. E scoprirono che attendeva. Le settimane si seguirono e il vecchio continuava il suo lavoro.
L’emissario entrato elegante e lindo si ridusse ad una statua di polvere, decrepito e giallastro il suo volto. Le gambe ferme incrostate dall’unto e dai parassiti.
Attese.
Il vecchio pose l’ultima lettera nella macchina da stampa e chiese a quell’aggeggio sfinito l’estremo sforzo. Perché una parola, per assurgere alla dignità di neologismo deve passare per la prova di Gutemberg e finché non viene scritta rimane soltanto un pensiero volubile. Dopo migliaia di prove il verbo si impresse sulla carta. E subito provocò, persino nel suo creatore, conoscitore dei suoi segreti, un’irresistibile commozione. E il vecchio seppe di aver finito. La prima parte del suo piano si concludeva con uno storico successo.
Quando l’uomo impolverato sentì il silenzio, ne restò tanto stupefatto che a chi l’avesse visto, al cospetto di miliardi di acari, si concesse un sorriso. Avrebbe voluto scrostarsi i parassiti di dosso ma le forze gli mancarono. Il vecchio s’affacciò dalla propria parte del bancone col solito sorriso, sormontato però da un tripudio di fatica e rughe, e porse al garzone la busta nuovamente sigillata. Poi il foglietto con la sua tariffa. Il solo accenno al denaro parve restituire all’incravattato l’energia sufficiente a portare a termine il suo lavoro. Prese in consegna la busta e pagò, sembrava incapace di muoversi, il vecchio in un accesso di bontà, tirò da sotto il bancone il suo piumino e spazzolò delicatamente il completo elegante, gli acari si diedero ad una vigliacca ritirata e l’uomo si meravigliò dello splendore dei propri abiti, quando anche l’ultimo dei parassiti abbandonò la suola delle sue scarpe.
“Se mi concede la libertà di un suggerimento” – disse il commerciante – “passi dalla venditrice di unguenti qua di fronte e dal venditore di frutti del peccato in fondo alla strada, la rimetteranno in sesto. Addio”.
L’uomo rivolse un cenno del capo e, incapace di parlare, uscì lentissimamente da negozio.
Fino a quel momento l’agognata vittoria del verbivendolo appariva più che altro una rovinosa disfatta. I libri giacevano consunti e le macchine da stampa parevano passate sotto il peso dei secoli. Ma il vecchio conservava un sorriso soddisfatto, la smorfia diabolica ispirata dalla vendetta.
I mesi trascorsero e il lavoro del vecchio continuava al solito ritmo, un cliente, tre minuti un altro cliente. Vendeva verbi per ogni esigenza e la sua libreria ebbe il tempo di curarsi le ferite. Un giorno d’estate, mentre il sole friggeva gli acari filtrando dalla vetrina, arrivò al vecchio un almanacco. L’artigiano e il volume sogghignarono di complicità.
La raccolta annuale svelò un articolo che diffusamente l’anno prima aveva invaso ogni giornale. La vicenda curiosa e triste del Parolaio. All’apice della propria gloria, il destino lo aveva ancora premiato con l’amore di una fanciulla che aveva fatto fremere centinaio di cuori. Gli invidiosi malignarono su quella insolita relazione tra il vecchio e la ragazza. L’uomo però s’era affrettato a vantare il potere delle parole, dicendo di quella lettera che gli era valso l’amore più desiderabile di tutti.
La storia però si chiudeva con un triste epilogo. Il parolaio rimase travolto dalla passione della fanciulla che incapace di liberarsi dalla malia di quel verbo estatico e prezioso non riuscì mai a lasciare il letto del parolaio, che presto perse l’energia per inventare parole, e poi l’appetito, il sonno, ogni contatto col mondo, le lenzuola s’insudiciarono e il ripetersi ossessivo dei gesti amorosi aveva trasformato la bellissima donna in una valchiria muscolosa e androgina, sudata e insaziabile. L’uomo invece perse i denti i capelli e pian piano, mentre la donna non smetteva d’amarlo, si consumò fino a diventare polvere, che la donna continuò a maneggiare fino a soffocarcisi.
Dalla bottega del verbivendolo si udì, in tutta la strada un fragore inatteso quanto inaudito. Una risata volgare e emanò dalle viscere del vecchio artigiano della parola. Una rabbia repressa da troppi anni esplose improvvisa e tutti i cattivi pensieri della cariatide danzarono con le parole inventate nei decenni, i libri investiti dall’allegria imbastirono una sfilata di vanità e ostentata saggezza, contagiati dalla febbre della vittoria.
Le parole si sa feriscono più della spada e la parola scritta rimane. Le parole scritte, come gli uomini uccidono, con infinite astuzie.


I commenti degli utenti di neilgaimania

crowley05-02-2008 alle 22:29

triste... ma qual'era il verbo? è perchè anche se è una storia sulla grammatica avevo difficolta a leggerla? sarà colpa dei miei bassi voti di italiano?

I dati del racconto

  • Racconto

    del 15-03-2006

  • Autore del racconto

    Manzo

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